La natura che ci cura
Pubblicato il
Tra i libri che affrontano il tema del rapporto tra malattie mentali e natura, cioè della natura come terapia della psiche, quello di Richard Mabey, grande botanico, naturalista, ornitologo inglese, merita un posto di rilievo
di Danilo Selvaggi
Scritto vent'anni fa, pubblicato originariamente nel 2005, "Natura come cura" (Einaudi) è il racconto della dura esperienza vissuta da Mabey con la depressione.
"I sintomi non erano novità assolute. Per tutta la vita mi ero ammalato ogni volta che qualcosa andava storto.... Questa volta, però, la faccenda sembrava più grave. Il malessere non finì con la fine dell'inverno ma continuò a ripresentarsi in varie forme e combinazioni per tutto l'anno seguente. E ovviamente, più me ne preoccupavo più peggioravo... Non avevo idee, opinioni, passioni, voglia di lavorare... Stavo andando a fondo. Non avevo più voglia di fare, paralizzato dalla paura di fare delle scelte, o per converso dall'ansia di non riuscire a decidermi.... Gran parte del tempo me ne stavo a letto, angosciato dalla mia stessa angoscia. Smisi del tutto di rispondere al telefono e di aprire la posta... Ero intrappolato in un nastro di Moebius, oggetto matematico ad una sola faccia. Nel mio caso, questa faccia era l'angoscia".
Sarà il Norfolk, contea dell'Inghilterra sul mare del Nord, piena di paludi, ad accogliere Mabey e pian piano aiutarlo a rinascere.
Le paludi, che di solito accomuniamo alla stasi, all'affondare, al perdersi, al rimanere incagliati, saranno la chiave per ripartire.
Per inciso, il Norfolk è uno dei miei luoghi del cuore. Ogni viaggio in Norfolk (puntualmente in tardo autunno, inizio inverno) è stato illuminante e appagante. Sempre ripetitivo, sempre uguale a sé stesso eppure diverso. Il silenzio degli stagni poco popolati, i voli potenti e leggeri del falco di palude, la nebbia avvolgente dei canneti, il vento freddo dal mare del Nord che certi giorni ti frusta il viso, i piccoli passeriformi solitari alla ricerca di chissà cosa, la speranza del lamento di un tarabuso, le diecimila oche zamperosee e granaiole che un pomeriggio di inizio novembre oscurarono il cielo di Holkham, la riserva naturale della costa nord, di ritorno dalle fatiche dei campi.
Non sembri strano che questo mondo, apparente così cupo, possa fare da cura, come avvenuto con Richard Mabey. È un mondo che preme certi interruttori, riaccende il fuoco interno, spinge a sentirti dentro un un sistema vivente il quale, proprio nel silenzio, nel vuoto, nella calma diradata tesse una trama aggregante. Ti chiama ad essere vivo, attivo e partecipe.
Questo è, per Richard Mabey, un punto chiave della storia: la cura non è un abbandono inerte alla natura, con la semplice esposizione "all'aria salubre per lavare via ogni malanno" o comunque il perdersi in essa, "nella speranza che la natura ci porti via da noi stessi". La cura è nello stabilire un contatto volontario, un legame di intenzioni. Un'amicizia con il mondo naturale che includa, e non escluda, il pensiero, l'immaginazione, la metafora, la nostra umanità. Insomma, una presenza rinnovata.
Al contrario, abbandonarsi, rinunciare, dice Mabey, sono false via di uscita.
"Penso che la mia cura sia avvenuta tramite un processo diametralmente opposto: sono stato aiutato non a uscire da me, ma a rientrare... riaccendere gradualmente la fantasia... In questo processo ho trovato una nuova fiducia in me stesso... Non mi sento di dire di essere guarito ma sono abbastanza convinto che non precipiterò più in certi abissi, [in certe] tempeste emotive, amplificandole... Sono cresciuto, sono uscito di casa. Sono tornato in giro".
Questo e tanto altro (racconti, dettagli, pensieri, descrizioni naturalistiche, digressioni storiche) è la "Natura come cura" di Richard Mabey e la sua idea di natura come rimedio che, vissuta nel modo giusto, rigenera, fa rinascere, non tradisce.
Per tornare a quel pomeriggio di inizio novembre, ad Holkam: dopo due ore nella riserva, con ancora il frastuono delle oche nelle orecchie e il freddo pungente nelle ossa, raggiungemmo il Victoria Inn, locanda a poche centinaia di metri dalla riserva. Le luci soffuse, il tepore dei camini, l'aria un po' vittoriana e un po' orientale del pub ci accolsero come un abbraccio. Ci accomodammo sui divani, ci rilassammo, chiudemmo gli occhi, quasi ci addormentammo. Poi ordinammo il tè.
Carico di dolcezza e immaginazione, e in qualche modo di cura, fu forse il tè più buono del mondo.