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Agricoltura e natura, equilibrio da ripristinare

Dopo migliaia di anni di pratiche moderatamente sostenibili, l’agricoltura ha prodotto una frattura tra le società umane e la natura con conseguenze pesanti per l’ambiente e la stessa umanità. Cambiare è possibile e necessario

La storia dell’umanità e dell’intero pianeta è legata a doppio filo a quella dell’agricoltura.

Con l’introduzione delle pratiche agricole - la coltivazione, l’allevamento - gli esseri umani hanno tratto grandi benefici e, al tempo stesso, iniziato a modificare l’ambiente in modo radicale, creando aree aperte dove c’erano foreste, canalizzando le acque, modellando e rimodellando il paesaggio, trasformando la natura in “territorio”.

La trasformazione del paesaggio è avvenuta in modo costante ma lento, con le produzioni che rimanevano ancora fortemente legate alle caratteristiche climatiche, pedologiche e naturali delle differenti aree geografiche.

La trasformazione portò inevitabilmente anche a un impatto sulla fauna e la flora selvatica, con specie che si adattarono a vivere negli ambienti agricoli costituendo delle comunità strettamente legate ai diversi agro-ecosistemi. Si pensi ad esempio alle comunità di orchidee, farfalle, libellule e uccelli legate alle praterie montane, che videro un’espansione nelle aree di bosco trasformate in prati da sfalcio, o alle specie di aree aperte che trovarono nei campi coltivati siti di nidificazione prioritari, come le albanelle, le rondini o alcuni passeriformi come le allodole.

Nei millenni, il connubio tra attività dell’uomo e natura è stato fonte di diversità: sia in termini di biodiversità selvatica, sia in termini di produzioni con varietà e razze locali così come paesaggi, culture, saperi.

Poi, la frattura.

La Rivoluzione (non) Verde

Questo equilibrio millenario ha subito una frattura, una brusca trasformazione. In poche decine di anni le campagne, sottoposte ad uno stress mai conosciuto prima si sono trasformate, da fonte e luoghi di vita, in qualcosa di molto simile ai deserti silenziosi raccontati dalla denuncia di Rachel Carson nel 1962. L’agricoltura, l’attività più importante e praticata dagli esseri umani, è diventata tra le prime cause di perdita di biodiversità a livello mondiale[1].

A determinare questa rottura, questo cambio di paradigma, è stato, l’evento beffardamente noto come “Rivoluzione Verde”, denominazione mai più impropria e infelice, considerate le sue devastanti conseguenze ambientali. Sviluppatasi nella seconda metà del ventesimo secolo, l’agricoltura della Rivoluzione verde si è intesa affrancare dalle pratiche agricole attente alla natura, per non dire alle stesse leggi della natura, e sposare un modello tutto quantitativo, di spinta potente della produzione.

Da un lato, la Rivoluzione verde ha massimizzato le rese garantendo cibo in abbondanza, dall’altro si è interamente legata alla meccanizzazione dei sistemi agricoli e all’input di prodotti di sintesi, fertilizzanti e pesticidi, la cui industria è fiorita nei primi decenni del secolo scorso.

In effetti, seppure già ai tempi dei greci e dei romani l’agricoltura ricorreva a rimedi naturali (ceneri, sale marino, decozioni di elleboro) per curare talune parassitosi, con il Ventesimo secolo e ancor più con gli anni tra le due guerre mondiali, le sostanze sintetiche si affermò ovunque, invadendo le campagne di tutto il mondo.

Dagli anni Venti agli anni Settanta del secolo scorso l’uso dei fitofarmaci (insetticidi ed erbicidi), a partire dal DDT (il diclorodifeniltricloroetano, della famiglia degli organoclorati) contro cui l’azione di Rachel Carson si concentrerà specialmente, fu massiccio e indiscriminato. Solo per citare alcuni dati, in Francia negli anni Trenta venivano utilizzati in media ogni anno 350.000 tonnellate di sostanze attive, mentre nelle campagne degli Stati Uniti, negli anni Settanta, poco prima del suo divieto (1972), erano sparse oltre 675.000 tonnellate, con modalità sommarie e per nulla selettive.

Ma come possono, sostanze nate per “curare”, fare così tanti danni? La risposta sta nel fatto che, così come per qualsiasi medicina abusata, il danno di queste sostanze derivò e deriva dal loro uso eccessivo e dalla sottovalutazione dei rischi, per mancata conoscenza, negligenza e in alcuni casi vera e propria irresponsabilità.

L’Europa e l’agricoltura

Al fine di “massimizzare” l’efficacia di pesticidi e fertilizzanti e la resa delle nuove varietà, l’agricoltura, un tempo sinonimo di varietà e adattamento, si trasformò in breve tempo in una vera e propria industria, in cui la meccanizzazione e il “controllo” spasmodico degli agenti esterni erano considerati l’unico modello possibile.

In Europa questo paradigma è stato purtroppo spinto dalla Politica Agricola Comune (PAC) che, benché emanata proprio nell’anno di uscita del libro della Carson (1962), e dunque quando già alcuni rivolti problematici avrebbero dovuto indirizzare su altre strade, ignorò completamente le conseguenze ambientali dell’approccio industriale, portando l’agricoltura europea nel solco del modello d’oltreoceano.

E tuttavia qualcosa stava accadendo nella cultura europea  internazionale. La presa di coscienza sempre maggiore da parte dei cittadini, la diffusione dell’attenzione per l’ambiente e la contezza man mano crescente dell’insostenibilità di quel modello spinsero l’Europa, a partire dagli anni Novanta,  a correggere il quadro, almeno in parte, apportando modifiche ai regolamenti delle programmazioni settennali della PAC, introducendo obiettivi ambientali e prevdendo fondi ad hoc, quali quelli per lo Sviluppo Rurale, la cui finalità è il sostegno ai territori agricoli anche sul piano sociale e ambientale.

Inoltre, assieme all’abuso delle sostanze chimiche in agricoltura, crebbero gli studi scientifici, che verificarono la tossicità di alcuni principi attivi e composti, e con essi si sviluppò - sulla falsariga dell’esempio di dato da Rachel Carson - una forte azione civile. Risultato: nuove norme di regolamentazione, limitazione e a volte divieto di tali prodotti.

Un passo avanti importante, certo. Che tuttavia non è bastato. Le misure fino ad ora ottenute, così come le riforme della PAC, non hanno condotto a tutti gli effetti sperati e le conseguenze negative del modello persistente si continuano a manifestare nelle campagne di tutta Europa.

Dal 2000 ad oggi in Italia abbiamo perso il 36% delle popolazioni degli uccelli degli agroecosistemi, come mostratoci dal Farmland Bird Index. I dati annuali raccolti da Ispra ci dicono della presenza di pesticidi nel 77,3% delle acque superficiali e nel 32,2% di quelle sotterranee, con un superamento della concentrazione massima di pesticidi consentita nel 21% del campione totale. I dati di ISPRA mostrano altresì un aumento generalizzato della presenza di queste sostanze anche in zone precedentemente non inquinate. 

La mancata risposta è facilmente spiegabile laddove si analizzino in dettaglio i contenuti delle normative che regolano l’uso dei pesticidi, nonché i regolamenti della PAC.

Soglie di tossicità, effetto cumulo, paradigma sbagliato

Da un lato, infatti, benché la normativa europea sui pesticidi (tra cui la Direttiva sull’Uso Sostenibile dei Prodotti Fitosanitari di prossimo rinnovo) sia tra le più avanzante al mondo, essa è ancora carente sotto molti aspetti. In primo luogo, la normativa si basa ancora sul concetto di soglia di tossicità, senza tenere in debito conto gli effetti a lungo termine dei pesticidi né il fenomeno dell'accumulo delle sostanze tossiche negli organi, che produce effetti non sempre prevedibili.

Ancora, la normativa calcola il rischio e regola ogni principio attivo o sostanza in modo singolare, quando è orami noto che vi è un importante contributo, come accennato, dell’effetto cumulo nei danni provocati da queste sostanze. In tal senso, ricercatori del Center for Biomedical Research hanno scoperto che due sostanze chimiche debolmente estrogene, se accoppiate, possono moltiplicare di un fattore 1000 i loro effetti e altri pesticidi, quali il Malathion e altri organofosfati, se somministrati simultaneamente si rivelano 50 volte più tossici.

Inoltre, una norma che vieti o regolamenti l’uso alcune sostanze, benché utile, non può essere di per sé stessa risolutiva ma necessità di un sistema virtuoso nel quale inserirsi e agire. Purtroppo, le diverse riforme della Politica Agricola Comune non hanno spinto per un reale cambio di paradigma, apportando nel corso dei settennati solo lievi correttivi a un sistema il cui centro rimane la massimizzazione delle produzioni e del profitto.

È ciò che sta avvenendo anche nella riforma in corso, che ha portato alla PAC post 2022. Benché i suoi regolamenti fissino nuovi obiettivi e introducano un rafforzamento della condizionalità ambientale (ossia le regole minime che ogni agricoltore deve rispettare per ricevere i fondi), l’impianto della PAC post 2022 lascia pressoché inalterato il sistema dei pagamenti diretti, che privilegia le grandi estensioni e gli allevamenti intensivi e quindi il disequilibrio tra agricoltura e natura.

Gli ultimi anni di crisi pandemica ci hanno mostrato con chiarezza, inoltre, come ogni parte del nostro Pianeta sia strettamente collegata e l’idea di curare il proprio orticello - quelli che Rachel Carson chiamava i “compartimenti stagni” – sia letteralmente impossibile.

Ciononostante, l’industria chimica e della produzione agricola sembra ignorare del tutto questo principio, esternalizzando gli impatti del consumo indiscriminato del nord del mondo sui paesi in via di sviluppo (sud America, Africa e Asia) e inoltre, fatto ancora più grave, esportando sostanze il cui uso è vietato da decenni in Europa e negli Stati Uniti, ma ancora permesso e, anzi, incentivato nel resto del Pianeta.

Assistiamo così ad una massiccia deforestazione delle foreste pluviali per far spazio a coltivazioni intensive di soia e palma da olio e a contaminazioni di interi territori dell’Africa, per mezzo di pesticidi di comprovata tossicità che causano mortalità nei contadini e alti tassi di tumori e malformazioni neonatali.

È però, in questo fosco quadro, una speranza c’è ed è grande, e viene nuovamente dal basso, dalla società civile, dalla partecipazione della gente, dalla sua voglia di cambiare il sistema.

Risanare la ferita

Nel solco dei movimenti ambientalisti nati anche grazie all’azione di Rachel Carson, i cittadini sono sempre più attenti alla conservazione dell’ambiente, alle politiche di equità sociale e alle scelte di consumo che possono contribuire alla conservazione della biodiversità, come ad esempio agli alimenti biologici, la cui crescita è davvero esponenziale.

La politica non ha potuto ignorare questi segnali e la Commissione Europea, nel 2020, ha pubblicato le Strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030, che indicano misure e target importanti anche per l’agricoltura: il 10% delle aree agricole da destinare alla natura, la riduzione entro il 2030 del 50% del rischio e dell’uso dei pesticidi e altro ancora.

Obiettivi ambiziosi ancorché doverosi e urgenti, dai quali occorre ripartire passando dalle parole ai fatti. La politica, gli agricoltori responsabili (ce sono moltissimi), i consumatori, i cittadini devono unirsi e agire per riportare in equilibrio il nostro rapporto con la natura, sanare la ferita.

La grande frattura verificatasi migliaia di anni fa va superata, con un’altra rivoluzione, questa volta verde davvero. La rivoluzione della buona agricoltura. L’agricoltura che riconosce i valori della biodiversità, della salute delle persone e della giustizia sociale e li rispetta concretamente.

 

(Tratto - con revisioni - da Lipu, Campagne silenziose, 2022).

 


 


[1] IPBES - 

Immagine
Un campo di mais in Lombardia
Un campo di mais in Lombardia © Andrea Mazza/Ufficio stampa Lipu